A Lezzeno tutto pronto per i falò di San Giuseppe: stasera si accendono i roghi sulla riva del lago





La storia e la tradizione che risale ai secoli scorsi. Già tutto pronto con decine di volontari che hanno allestito tutto in riva al lago.
E’ tutto pronto. Stasera, la vigilia di San Giuseppe, Lezzeno festeggia con l’accensione dei falò sulla riva del lago. Una vecchia tradizione che risale a secoli fa ed è legata ai roghi delle streghe proprio vicino al lago. Negli anni della Pandemia la manifestazione era stata rinviata, stavolta si ritorna in grande stile. L’appuntamento è per la serata odierna con grande attesa dei cittadini: molti coloro che hanno partecipato all’allestimento dei falò con fascine di legno. E che ora aspettando solo di essere accesi.


Qui la storia e la tradizione di questi roghi secondo quello che è stato pubblicato dal comune di Lezzeno sul suo sito istituzionale.
I falo’ di San Giuseppe (tratto dal Cap. 2 del libro “La vita la ghe va ‘dree a la camisa” di Basilio Luoni e Mauro Vaccani)
Il frammento di passato più duro a morire è stato, in definitiva, la tradizione del falò di San Giuseppe. Riesce a vivacchiare anche oggi, se pure in forma alterata e piuttosto snaturata. Era una festa dei ragazzi, prima di tutto – erano loro i celebranti, i sacerdoti del rito, gli adulti erano tenuti alla larga – e aveva qualcosa, credo, degli antichi riti di iniziazione. I ragazzi di ogni frazione si raggruppavano in banda, escludend rigorosamente ogni estraneo alla frazione stessa. La lunghezza del paese, la scarsità dei mezzi di trasporto contribuivano a tenerli distanti, quando non ostili gli uni agli altri. Si ritrovavano insieme a scuola, alla messa e ai vespri domenicali, ma l’inverno e l’estate tornavano a vederli divisi: ogni banda nelle stalle o sulla spiaggetta della propria frazione. Per il falò bisognava cominciare a darsi da fare prima della neve, anche a fine novembre. Gli sterpi, le stoppie del granoturco che infracidivano nei campi ( i menegasc ), qualche modesta fascina di legna sottile, di solito rubata perché nessuno regalava della legna: grossa o fine che fosse era preziosa. Dopo la scuola, nella scarsa ora di luce prima del crepuscolo, le squadre percorrevano i letti dei torrenti – terra di nessuno, almeno quelli. Armate di curlasc e fulcitt ripulivano muretti e dirupi dai sambuchi e dai rovi ancora guarniti di qualche mora intirizzita. Con bastoni li issavano o rotolavano fin sulla strada, qualche volta li caricavano su una slitta e li portavano in salvo nella frazione.
C’era sempre una cascina o una stalla o una cantina o un sottoportico dove poterli nascondere e sorvegliare. A Sormazzana, ad esempio, venivano ammucchiati in una sorta di chiassetto tra muri ciechi, dove la luce faticava a penetrare anche d’estate. Il tesoro aumentava di volume faticosamente, costantemente tenuto d’occhio. I ragazzini erano guardiani gelosi e occhiuti, come i nani e i draghi di Beowul e delle fiabe nordiche. Più era vicino il tempo della festa, maggiori erano i rischi che le mazzoeu e scesee venissero trafugati dalla banda di un’altra frazione. Perciò si organizzavano turni di guardia notturni, veglie d’arme contadine con aspiranti cavalieri insonni, armati di fionde e di ciottoli e di qualche scodella di vin per combattere il freddo. Se si avvistavano spie nemiche, intrusi malintenzionati, erano sassaiole e zuffe degne del Baldus di Merlin Cocai. Le teste rotte erano frequenti, medicate con fazzoletti e ragnatele strappate alle volte delle cantine. Gli ultimi giorni prima della festa erano frenetici. Si razziavano i viticci ( i videsc ) appena potati nelle vigne, quando i contadini non era abbastanza accorti da portarseli subito a casa, e si andava nei boschi a mezza costa a rimediare di frodo qualche manovella, qualche fascina. Sempre di frodo veniva tagliato el palott, il fusto slanciato e dritto che è il perno del falò. Di solito era un tiglio, perché i tigli sono slanciati, e per tagliarlo e sfrondarlo entravano in azione i “ vecchi “, i fratelli maggiori, i ragazzotti ormai prossimi al fidanzamento e al servizio militare. Erano loro a trascinarlo sulla riva del lago, a piantarlo nella ghiaia, a metterlo perpendicolare come un obelisco, ad accatastarvi intorno con criterio tutto il materiale che i piccoli stavano trasferendo disordinatamente dal caveau: sotto la legna più nobile, intorno e sopra i rovi e le stoppie che prendono fuoco più facilmente. La sera dell’accensione – il 18 marzo – si aspettava il buio senza tornare a casa per la cena. Andava sventato un ultimo pericolo: che scivolando sul lago arrivasse una barca di rivali a incendiare la catasta prima del tempo. Era un vanto, i giorni seguenti, poter dire che il proprio falò si era spento più tardi degli altri. Cominciava ad affluire pubblico: i bambini piccoli e la ragazze prendevano posto sui panchetti della barche in secco come nei palchi di un teatro; curiosi di altre frazioni arrivavano e ripartivano con aria trafelata.
Comparivano i padri e i nonni, col mozzicone di Alfa e Nazionale prigioniero nei cespuglio dei baffi. Anche le vecchie si strappavano dalla nicchia del focolare dove sempre vivevano inchiodate per il resto dell’anno. Si piantavano a gambe larghe nella ghiaia, scure e arcigne o improvvisamente scosse da un riso sgangherato e infantile, ultimi avanzi di una fertile stirpe di streghe. Quasi sicuramente il falò era contro di loro, per difendere i campi, le sementi, i raccolti e le bestie dai loro scherzi maliziosi o maligni, un rito che aveva, tra l’Ascensione e la Pentecoste, un supplemento cristiano nelle processioni rogazionali attraverso i campi e i prati appena arati: “ a fulgure et tempestate libera nos, Domine, – A flagello terremotus – A peste fame et bello…” e loro stavano al gioco, erano lì a controllare che tutto fosse come si deve, per poi tornarsene, contorte come radici e libere e strafottenti come l’aria, agli antri dove razzolavano chiocce e pulcini. Qualcuno finalmente accostava alla catasta una torcia di carta. Una chioma di fuoco avvolgeva i rovi, la legna verde crepitava, scoppiettava, volande si alzavano verso il cielo ormai nero capricciose come lucciole e precipitavano giù a smorzarsi nell’acqua tranquilla. I ragazzi correvano intorno con lunghe forche, preoccupati che il falò non franasse a valanga. Ma presto el palot senza più il sostegno delle fascine, s’inclinava e piombava con un tonfo nel lago. Restava un cerchio di braci che venivano spente con cura. Così il mattino dopo i ragazzi potevano andare di porta in porta a vendere carbonella per qualche spicciolo da spendere alla fiera del paese, il 20 di marzo. Anche el palot veniva venduto a qualcuno che ne avesse bisogno per ricavarne qualche rustico arredo.

Grazie ad Angela Zappa per le foto della vigilia)