Cronaca

8 marzo, facciamo il punto sull’occupazione femminile

Tra dati della Camera di Commercio di Como e Lecco, la situazione europea e quella italiana: tutto sull'occupazione femminile nel 2021

8 marzo e occupazione femminile

Nella Giornata Internazionale della Donna che ricorre l’8 marzo, vale la pena fare il punto della situazione sull’occupazione lavorativa femminile in Italia e sul territorio lariano, partendo da alcuni dati significativi rilasciati dalla Camera di Commercio di Como-Lecco.

Le imprese gestite da donne nell’area lariana, a fine dicembre 2020, sono 12.850 e rappresentano il 19,7% del totale. Nella graduatoria lombarda per incidenza delle aziende “rosa” sul totale delle imprese, Como (8.242 realtà imprenditoriali, 19,4%) si trova in 10a posizione (e al 100° posto della classifica nazionale), mentre, per quanto riguarda gli addetti delle imprese “rosa“, a fine settembre 2020, a Como le aziende gestite da donne occupano quasi 20.000 persone (il 12,7% degli addetti complessivi), dato che piazza Como al 94° posto in Italia e al 9º posto in Lombardia.

Secondo FP Cgil Como, sono 101 mila i posti di lavoro persi nel solo mese di dicembre 2020, di cui 99 mila erano occupati da donne e su 10 persone contagiate nei posti di lavoro 7 sono donne. Dati impressionanti, ma purtroppo non sorprendenti. La pandemia non ha fatto altro che acutizzare la difficile condizione in cui la maggior parte delle donne, anche a Como, si trova quotidianamente e da sempre: il lavoro di cura in famiglia e nel mondo del lavoro.

Sono mamme, figlie, sorelle, nuore e nonne il welfare più esteso: donne che accudiscono i figli, i nipoti, i genitori, i suoceri e i mariti, costrette troppo spesso a rinunciare ad un lavoro e quindi ad un reddito necessario per l’indipendenza economica. Donne la cui condizione è già compromessa da lavoro precario, discontinuo, non qualificato, sottopagato, a ridotto orario e per questo sacrificabile; nel 2020 dei 444 mila posti di lavoro andati persi, 312  mila erano occupati da donne, una vera e propria espulsione. Le donne rimaste nel mondo del lavoro hanno nella maggior parte dei casi stipendi spesso significativamente inferiori a quelli maschili, certo non per carenza di competenze e capacità.

Il lavoro di assistenza si estende anche ai luoghi di lavoro: la maggior parte delle impiegate nei servizi di cura, come case di risposo, ospedali, centri per disabili, servizi sociali, asili nido, scuole materne, mense, servizi di pulizia sono donne. Lavoratrici che in condizioni spesso precarie, con stipendi bassi, quando non bassissimi, in condizioni di sicurezza non sufficienti, rischiando tutti i giorni di ammalarsi. Le donne sono le maggiori occupate nei lavori “essenziali” ma anche quelle più sacrificabili. In alcuni settori del lavoro di cura saranno quelle che verranno per prime licenziate, perché le realtà residenziali si sono svuotate e buona parte della cura rischia di tornare tra le mura domestiche, sempre a carico delle donne.

8 marzo e occupazione femminile

Secondo una ricerca di Federcasalinghe, l’occupazione femminile italiana è penalizzata più dalla maternità che dalla pandemia: le donne occupate con figli che vivono in coppia sono solo il 53,5%, contro l’83,5% degli uomini a pari condizioni. La situazione occupazionale si avvicina molto tra i due generi in caso di single, in cui i tassi di occupazione sono rispettivamente 76,7% per maschi e 69,8% per le femmine. Anche l’ultima analisi dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro sulle convalide di dimissioni e risoluzioni consensuali di madri e padri nel 2019 fotografa un’Italia ancora una volta debole nell’ambito del sostegno alla genitorialità, in cui quasi 38 mila lavoratrici neo-mamme si sono dimesse durante il 2019. Dopo la riforma pensionistica del 2011 sono state abolite le differenze tra uomo e donna in termini di pensione e sono poche le donne che raggiungono la pensione per anzianità lavorativa. Inoltre l’importo pensionistico delle donne è nettamente inferiore a quello maschile. Per questo motivo, Federcasalinghe propone un anno di contributi per far ripartire l’occupazione femminile con una “Quota mamma per tutte”, calcolata in base al numero di figli: considerando la distribuzione per figli dei 12 milioni di mamme italiane e l’importo del bonus, è possibile riportare un contributo medio di 10 mila euro pro-capite, arrivando a stimare un costo annuo di circa 500 milioni. Questa proposta incentiverebbe le donne che non hanno un lavoro retribuito a rientrare nel mercato del lavoro, quanto meno per arrivare alla soglia contributiva della pensione di vecchiaia. Se rientrassero nel mondo del lavoro solo le lavoratrici potenziali dai 25 ai 54 anni (circa 1,3 milioni di donne) la crescita del tasso di attività femminile sarebbe immediata e passerebbe dal 66% al 77%.

La situazione rispetto all’Europa (Fondazione Studi Consulenti del Lavoro – Consiglio Nazionale dell’Ordine)

Nel 2020 l’Italia avrebbe dovuto raggiungere i target previsti dalla Strategia Europa 2020 con l’innalzamento del tasso di occupazione a quota 67% e l’incremento in numeri e qualità del lavoro femminile, vero tallone d’Achille del sistema. Ma lo scoppio della pandemia ha fatto saltare i programmi, rendendo non solo più difficile il conseguimento degli obiettivi previsti, ancora lontani dall’essere raggiunti ben prima dell’emergenza Covid-19, ma allargando ulteriormente il divario che separa il nostro Paese dal resto d’Europa.

Nel periodo aprile-settembre 2020 l’Italia ha registrato una perdita di lavoratrici doppia rispetto alla media Europea. A fronte di un calo del 4,1% delle lavoratrici italiane tra i 15 e 64 anni (402 mila in meno), in Europa il numero delle occupate nella stessa fascia d’età è diminuito del 2,1%. Dopo la Spagna, il nostro è il Paese che segna la contrazione più elevata nell’occupazione femminile. Ma è soprattutto quello in cui il differenziale di genere nell’impatto della crisi risulta più elevato, con un gap di ben 1,7 punti percentuali tra uomini e donne che non ha pari in Europa.

8 marzo e occupazione femminile

Mediamente, su 100 posti di lavoro persi in Europa quelli femminili sono 46, mentre in Italia 56. Tra i grandi Paesi nessuno fa peggio di noi. Negli ultimi 12 mesi, il tasso di occupazione femminile nella fascia d’età 15-64 anni in Europa è passato dal 63,3 al 62,4 (con una diminuzione di 0,9 punti percentuali); in Italia, dal 50,1 al 48,5 (con una diminuzione di 1,6 punti percentuali), ampliando ancora di più il divario con gli altri Paesi. L’Italia continua a rappresentare un unicum nello scenario europeo ed internazionale per quanto riguarda il lavoro femminile. A partire dal livello di partecipazione delle donne al lavoro, che da sempre si attesta su valori molto più bassi degli altri Paesi, ma anche quando le donne accedono al lavoro, la loro condizione occupazionale continua ad essere caratterizzata da una debolezza strutturale che finisce per renderle più esposte ai rischi di espulsione dal mercato rispetto agli uomini e alle colleghe di altri Paesi.

Per quanto riguarda il lavoro autonomo, colpito fortemente dalla crisi, nei mesi di aprile-settembre 2020, l’occupazione indipendente femminile è diminuita rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente di 103 mila unità registrando una contrazione del 6,4%, praticamente il doppio di quella registrata dagli uomini. In nessun Paese europeo si è assistito ad un calo così forte. Sempre il confronto europeo evidenzia come la stessa flessibilità del lavoro, sia contrattuale che oraria, abbia nel nostro Paese un ruolo più penalizzante che funzionale alle esigenze delle lavoratrici. Diversamente da quanto avviene in Europa, dove il ricorso ai contratti a termine e al part time trovano giustificazione in specifiche richieste delle lavoratrici, in Italia sono condizioni più imposte che desiderate.

In tutta Europa, le lavoratrici a termine sono state le più colpite dalla crisi: tale componente di lavoro ha registrato una contrazione del 14,5%, di poco inferiore a quella maschile (16%). In Italia, il calo è stato più elevato (19,4%) per le donne e, in questo caso, superiore a quello maschile (16,7%). Anche con riferimento al part time si registrano indicazioni simili: a fronte di una perdita del 3,2% di occupate con tale formula in Europa, nel nostro Paese il calo è stato del 6,9%.

Infine, vi è da segnalare la persistente fragilità professionale che caratterizza il lavoro delle donne in Italia. Sebbene negli ultimi anni l’occupazione femminile sia cresciuta di misura, anche ai livelli più elevati della piramide professionale, l’Italia registra tra le 15-64 enni ancora una bassa presenza di donne tra le professioni a più elevata qualificazione. Su 100 occupate, solo 38 si collocano ai vertici della piramide professionale svolgendo una professione di carattere manageriale (2,3% contro il 3,7% della media EU), professionale e intellettuale (19,7% contro il 22,4% della media EU) oppure tecnica (16,5% contro 18,2%).

Il grosso dell’occupazione femminile in Italia si colloca su posizioni intermedie, impiegatizie (18,2% contro il 13,7% della media europea) e di servizio alle vendite (24,5% contro il 22,7%). Ed è proprio in questa fascia professionale che si registrano i fenomeni di over-education, ovvero di disallineamento fra livello di istruzione e quello richiesto per ricoprire determinate posizioni. La minore presenza sui profili professionali più solidi rappresenta un elemento di fragilità di sistema, incidendo sulla stessa capacità di tenuta occupazionale delle donne.

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