Il lutto

Maradona, un uomo con i sogni di un bambino che dormiva abbracciato a un pallonesegui la diretta

Diego Armando Maradona se ne è andato pochi giorni dopo aver compiuto sessant’anni. Avevamo festeggiato il compleanno del Pibe de Oro mandandogli un augurio transoceanico da uno dei suoi nemici sul campo, quel Claudio Gentile che in Italia-Argentina al Mundial dell’82 non gli fece toccar palla.

Di “Maradona visto da vicino” scriveva anche Davide Van De Sfroos sul Corriere della Sera, ricordando l’estate del 1986, quella dei Mondiali in Messico e del famoso gol di mano all’Inghilterra, quando Diego apparve sul lago di Como. Era arrivato sul Lario, nei cantieri di Tullio Abbate, per comprare un motoscafo da 46 piedi. Ma il campione non si limitò all’acquisto della barca. Fece capolino in una pizzeria di Lenno concedendosi a foto e autografi per i tifosi estasiati. Quell’anno 1986, il Como militava in serie A e il Pibe de Oro scese in campo al Sinigaglia in un Como – Napoli,  fu con un suo rigore che la squadra partenopea acciuffò il pareggio.

 

Abbiamo chiesto a Maurizio Fierro, scrittore appassionato di storie sportive, un breve ritratto di Diego Armando Maradona

Forse non poteva che andarsene nello stesso giorno in cui scomparve il suo grande amico Fidel, Diego Armando Maradona, calciatore rivoluzionario e Cèzanne del calcio, unico nel farci dimenticare quello che si era ammirato prima di lui sul rettangolo verde, e altrettanto unico nel proiettare gli amanti del football verso scenari che erano un gradino sotto la fantasia e un gradino sopra la realtà. Già: la realtà. Quella sporca e polverosa di Villa Fiorito, provincia di Buenos Aires, da dove mosse i primi passi la sua avventura calcistica.

A quei tempi si diceva che dormisse abbracciando la palla, e di giorno con lei faceva prodigi. La sua Buenos Aires era quella periferica del Boedo, della Boca del Riachuelo, dove malavitosi e prostitute  convivevano con in sottofondo gli inconfondibili ritmi del tango di Astor Piazzolla versificato in lunfardo, il dialetto dei bassifondi, uno scenario ben rappresentato dallo scrittore Roberto Arlt che, con il suo libro più famoso, “I Sette Pazzi”, descrive il sogno della rivoluzione sociale contro il capitalismo.

Perché nel suo piccolo, Diego, un po’ lo è stato, rivoluzionario, e lo sanno bene i tifosi del Napoli e di Napoli, in perenne tumulto contro il capitalismo del calcio, quello rappresentato dagli squadroni egemonici del nord. Napoli, che lo accolse come un messia e lo venerò al pari di una divinità, in quel pot-pourri di sacro e profano così caro all’iconografia popolare, un po’ Santa Maradonna un po’ San Gennararmando.

Napoli, suo ideale luogo identitario, con tutte le contraddizioni di questa bellissima città riflesse nel suo temperamento argentino, miscuglio di tristezza, risentimento e orgoglio, in perfetta fusione alchemica con le caratteristiche dell’ambiente, in una costante ricerca di un punto di fuga prospettico dal grigio orizzonte fatto di miseria e degrado. E per Diego e la sua città adottiva, la pietra filosofale furono i due scudetti, conquiste di lacrime e sudore, ancora più belli in quanto inaspettati, perché togliete al calcio l’Inaspettato e non resta che l’arida ritualità di numeri e classifiche sempre uguali. Ma a volte la fantasia supera il pronostico, e l’arte riesce a riprodurre la realtà che ha sognato, e i guizzi, le pause palleggiate, i dribbling danzanti che matano gli avversari come fossero passi di corrida, le parabole beffarde e i tiri che quasi accarezzano la sfera depositandola maligna oltre l’estrema difesa del portiere, rappresentarono altrettante espressioni di ribellismo artistico; come quella che andò in scena il 22 giugno del 1986, nei quarti di finale dei Mondiali messicani, dove in soli quattro minuti Diego prima beffò con la famosa “mano di Dio” il portiere Shilton, poi marcò quello che sarebbe stato considerato il più bel gol del secolo, effigiando con la sua arte onirica la rivincita sportiva della sua Argentina alla disfatta della guerra della Falk-land-Malvinas. Il giorno dopo per le strade di Buenos Aires sfilarono centinaia di macchine imbandierate che chiedevano la restituzione di quelle terre perdute dal generale Gualtieri quattro anni prima, e fu quello il momento in cui il calciatore Maradona si trasformò in archetipo, diventando l’icona pop di tutti coloro che sognavano di disinnescare con l’arte e la fantasia un destino di infelicità.

E non importa se da quel momento la sua parabola umana corse verso un orizzonte a precipizio, fra cocaina, puttane e rapporti ambigui con la camorra; “chi sbaglia è vivo”, ha detto Philip Roth, e Maradona è stato anche questo, un vivente imperfetto, arrestato in diretta televisiva nella sua Buenos Aires, poi sempre più prigioniero dei suoi démoni, un po’ traditore, in questo, di tutto quello che aveva rappresentato sul rettangolo verde, lui, artista dell’attacco, costretto a giocare in contropiede con la sua vita, in un classico give-back, restituendo con la sofferenza quanto ricevuto in sorte dal Dio del calcio.

Diego Armando Maradona. Un uomo sempre sul limitare di un abisso, un attimo prima di cadere, un attimo prima di salvarsi. Un calciatore speciale, che vivrà nella memoria di chi l’ha visto giocare parlandone a figli e nipoti, per sempre impresso nell’immaginario collettivo della gente, perché aver visto Maradona correre dietro un pallone significa aver intuito cosa in realtà significa il calcio, che non ha tanto con la vittoria o la sconfitta, quanto con il raggiungere, anche solo per un solo e indimenticabile momento, uno stato di grazia.

Lo hanno definito El Pibe de oro. Un ragazzo diventato uomo con i sogni di un bambino che dormiva abbracciato a un pallone, e che quel pallone il giorno dopo avrebbe preso a calci come mai era nessuno aveva osato fare prima di lui.

Perché poi, come diceva il porteño Jorge Louis Borges, ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per strada lì ricomincia la storia del calcio.

Maurizio Fierro

 

 

 

 

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