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Cosa succede nei cimiteri di Como? Pubblichiamo un intervento di Davide Fent

Cosa succede nei cimiteri di Como? Pubblichiamo un intervento di Davide Fent

cimitero como

Sapete cosa sta succedendo nei 9 cimiteri di Como? Davide Fent, conosciuto giornalista e scrittore comasco, scrive alla redazione  un’argomentata lettere che noi pubblichiamo integralmente.

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Leggo su LA PROVINCIA la dichiarazione di Don Andrea Messaggi, grande sacerdote, rettore della Basilica di Sant’Abbondio <<Le direttive prevedono le chiusure dei cimiteri, quasi ovunque è così. Ma a Como il comune ha vietato anche la presenza di un prete, di una vedova, dei figli. Il feretro viene portato dietro i cancelli del cimitero dagli operatori delle onoranze per le inumazioni o direttamente dentro la camera mortuaria. Li viene gestito dagli addetti cimiteriali, noi sacerdoti non veniamo nemmeno avvertiti.. >>.

Sono allibito, sarebbe il caso che i Consiglieri Comunali ispezionino la situazione nei nove cimiteri cittadini, in una città  che ha il forno cremazioni bloccato da anni, con tutti i disagi, anche economici per le famiglie dei defunti che leggiamo non senza provare un senso di profonda “rabbia”, quella di Giovannino Guareschi. Tra le misure prese durante quest’emergenza, il divieto di assistere ai funerali è una delle più disumanizzanti, ma in molte Città è permesso un saluto religioso, con la presenza di un sacerdote e con tre o quattro familiari.

A Como divieto alla lettera, perché? In nome di quale idea di «vita» si sono prese queste misure? Nella retorica dominante in queste settimane, la vita è ridotta quasi interamente alla sopravvivenza del corpo, a scapito di ogni altra sua dimensione. In questo c’è un fortissimo connotato tanatofobico (dal greco Thanatos, morte), di paura morbosa del morire. La tanatofobia permea la nostra società da decenni. Già nel 1975 lo storico Philippe Ariès, nel suo caposaldo «Storia della morte in occidente», constatava che la morte, nelle società capitalistiche, era stata “addomesticata”, burocratizzata, in parte deritualizzata e separata il più possibile dal novero dei vivi, per «evitare […] alla società il turbamento e l’emozione troppo forte» del morire, e mantenere l’idea che la vita «è sempre felice o deve averne sempre l’aria».

Nell’arrivare a ciò, proseguiva, era stato strategico «lo spostamento del luogo in cui si muore. Non si muore più in casa, in mezzo ai familiari, si muore all’ospedale, da soli […] perché è divenuto sconveniente morire a casa». La società, sosteneva, deve «accorgersi il meno possibile che la morte è passata». Ecco perché molti rituali legati al morire erano ormai ritenuti imbarazzanti e in fase di dismissione. Già prima dello stato d’emergenza che stiamo vivendo, la ritualità legata al morire era stata ridotta al minimo. Per questo ci hanno sempre colpito così tanto le manifestazioni di un suo riemergere.

Si pensi al successo mondiale di un film come «Le invasioni barbariche» di Denys Arcand. Quarantacinque anni fa Ariès scriveva: «nessuno ha più la forza o la pazienza di attendere per settimane un momento [la morte, NdR] che ha perduto parte del suo significato». E di cosa racconta il film canadese del 2003 se non di un gruppo di persone che attende per settimane – in un contesto di convivialità e riemergente, laica ritualità – la morte di una madre, di un padre, di un parente, di un amico? Se la ritualità legata al morire era già ridotta al minimo, col divieto di assistere al funerale di un proprio caro è stata annichilita.

Già il 25 marzo scorso un un parroco del reggiano, don Paolo Tondelli, scriveva sgomento per le scene a cui gli toccava assistere: «Così mi trovo davanti al cimitero, con tre figli di una madre vedova morta da sola all’ospedale perché la situazione attuale non permette l’assistenza dei malati. Loro non possono entrare al cimitero, i provvedimenti presi non lo permettono. Così piangono: non hanno potuto salutare la madre quando ha smesso di vivere, non possono salutarla neanche ora mentre viene sepolta. Ci fermiamo al cancello del cimitero, per strada, dentro di me sono amareggiato e arrabbiato, mi viene un pensiero forte: neanche un cane viene portato così alla sepoltura.

Credo si sia un attimo esagerato nell’applicare le norme in questo modo, stiamo assistendo a una disumanizzazione di momenti imprescindibili della vita di ogni persona, come cristiano, come cittadino non posso tacere […] Mi dico: stiamo cercando di difendere la vita, ma stiamo rischiando di non salvaguardare il mistero che ad essa è legato.» «Mistero» che non è prerogativa della fede cristiana o di una sensibilità religiosa, che non coincide per forza con il credere nell’anima immortale o che altro, e sul quale ci interroghiamo tutte e tutti: cosa significa vivere? E, aggiungiamo, cosa distingue il vivere dal semplice tirare avanti o dal semplice non-morire? Detto questo, chi è credente e osservante ha vissuto la sospensione delle cerimonie legate al culto – messe funebri comprese – come un attacco alla propria forma di vita.

Non a caso, ci sono esempi di organizzazione clandestina (evviva) di cui alcuni cronisti cattolici hanno reso conto nelle discussioni di questi giorni, c’è la prosecuzione catacombale della vita pubblica cristiana. Abbiamo testimonianze dirette sul fatto che in molte parrocchie i fedeli hanno continuato a seguire la messa, nonostante i cartelli sui portoni dicessero che erano sospese. Il “nocciolo duro” dei parrocchiani si ritrova lo stesso, nel refettorio del convento, o nella canonica, o in sagrestia e in alcuni casi proprio in chiesa. Venti, trenta persone, richiamate per passaparola. Lo stesso si può dire per i funerali.Anche in questo caso abbiamo testimonianze dirette di preti che hanno officiato comunque piccoli riti, coi familiari stretti, senza pubblicità.

Il gesto individuale è spesso invisibile ma a volte è vistoso, come nel caso del podista sulla spiaggia deserta di Pescara, braccato dalle guardie per nessun motivo che abbia il minimo fondamento epidemiologico. Un video divenuto virale, con l’effetto di mostrare l’assurdità di certe norme e della loro ottusa applicazione. Continuare a correre è stato, oggettivamente e nel suo esito, una performance molto efficace, un’azione di resistenza e “teatro conflittuale”.

La mia non vuole essere una contestazione, sono recluso a casa da più di trenta giorni senza uscire, perché è giusto tutelare la salute pubblica, ma vuole essere uno spunto di riflessione sulla scala delle priorità e sui valori più profondi che mi interpellano in questa situazione così complessa. Non celebrare affatto i funerali, neanche in forma privata alla presenza dei parenti stretti, introduce a mio parere un elemento di disumanità e crudeltà intollerabile, lede i diritti umani.

Siamo tutti chiamati a fare la nostra parte rispettando le leggi, ma la situazione non deve farci perdere di umanità. In che misura fare un funerale, con tutte le limitazioni, è potenzialmente maggiore fonte di contagio rispetto ad andare a fare la spesa, con tutte le limitazioni? Ma perché dovrebbe essere più pericoloso avere un rito funebre per i familiari stretti di una persona che oggi viene a mancare, per il coronavirus o non, piuttosto che andare a lavorare, per coloro che dovranno continuare a lavorare ad esempio per la produzione di generi alimentari o macchinari medici? Chi dice che c’è meno rischio per chi consegna a domicilio che per chi va al funerale di un parente estinto? Non c’è dubbio sul fatto che determinati lavori non si possono fermare per consentire la sopravvivenza della popolazione, ma come si stabilisce cosa è necessario per sopravvivere e cosa no? Quanto può essere devastante psicologicamente e che ripercussioni può avere l’impossibilità di vivere un rito per il caro estinto se lo si desidera fortemente? Questa decisione tiene conto del dolore e dello smarrimento di chi perde un caro? Le chiese italiane sono tendenzialmente strutture molto ampie, danno molte più possibilità di distanziare le persone di molti luoghi di lavoro. Non è forse dovere dello Stato riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 della Costituzione Italiana)? E chi stabilisce, e secondo quali criteri, che questa non ne sia una violazione? Nelle situazioni di crisi gli spazi per coltivare l’umanità delle persone, per riconoscerne e accoglierne la fragilità sono i primi a perdersi. Il mio appello è: restiamo umani.

Devo poter avere un conforto, se ci credo. Con profonda amarezza, Davide Fent.

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