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INCONTRI: Erri De Luca “Sono più lettore che scrittore, a volte leggo delle cose che mi fanno sobbalzare di gioia”

sabrina sigon erri de luca

di Sabrina Sigon

«Ma questo è un dono! Gente che aspetta sotto l’acqua per sentire me! Un privilegio che non metto in relazione a un mio merito, ma a un simpatico equivoco che mi fa piacere che ci sia».

Comincia così, domenica 17 novembre, il secondo incontro al Teatro Sociale di Como con Erri De Luca, scrittore e studioso di diverse lingue tra cui il russo, lo swahili, lo yiddish e l’ebraico antico, da cui ha tradotto alcuni testi della Bibbia. Una seconda presentazione resasi necessaria vista la grandissima affluenza di gente venuta anche da Milano e da molti paesi limitrofi per ascoltarlo, e realizzata grazie alla disponibilità dell’autore e del Teatro Sociale di Como. E di cose da raccontare, Erri De Luca, ne ha davvero molte.

«Eccomi qua, vostro ospite, un po’ spaesato, fuori posto», continua De Luca. «Del resto, uno che viene da Napoli è un po’ fuori posto ovunque; una volta che si è portati fuori da quel posto – al quale devo tutta la mia gratitudine – non si è più di nessun luogo. Come succede ai denti: se ti tiri un dente non lo pianti poi dai un’altra parte, rimane così, a radice scoperta. Ma a diciotto anni avevo una tale carica, che non potevo più rimanere in quel futuro apparecchiato. Sono stato catapultato fuori, come succede a quelle palle di flipper – molti giovani non sanno nemmeno cosa sono, i flipper – che rimbalzavano in discesa attraverso ostacoli luminosi; lo scopo di un flipper era di far finire la palla in buca il più tardi possibile, e questa è una metafora dell’esistenza che adotto volentieri: sono una palla da flipper, lanciata fuori dal cunicolo di Napoli che cerca di finire in buca il più tardi possibile, continuando a rimbalzare da una parte all’altra».

Il 1900 come secolo di grandi spostamenti

«Da un certo punto di vista si potrebbe chiamare un percorso: il mio è un percorso a zig-zag tra affari, coincidenze che mi spingono da una parte all’altra. Niente di quello che mi è successo nella vita ho potuto catalogarlo sotto il nome di “progetto” o “programma”. È sempre capitato tutto quello che è capitato per inerzia delle cose intorno. Le cose che mi sono trovate intorno erano quelle del 1900, che è stato un secolo molto impegnativo, di grandi trasformazioni e migrazioni. Per la prima volta milioni di esseri umani si sono spostati da un continente all’altro. Milioni di persone che hanno lacerato relazioni con addii nei punti di partenza che non si sarebbero mai più ricuciti né rimarginati, perdendosi nei vari continenti e nelle varie latitudini. Non parlo solo di noi italiani, che pure siamo stati dei grandi contribuenti – forse i contribuenti di maggioranza di questa milionaria evacuazione – ma anche di altri paesi d’Europa. Miriadi di esseri umani che si sono trovati in posti come Ellis Island, questo isolotto di fronte a New York dove si sbarcava. Un posto dove si veniva controllati dentro le gengive per capire se si era adatti allo sbarco: allora guardavano i denti e gli occhi. Tutti quelli che avevano un particolare problema agli occhi – allora non si conosceva ma oggi si chiama glaucoma – siccome non si potevano curare venivano rimandati indietro. Eppure, rispetto a ciò che succede oggi, ne hanno espulsi il 3%. Le percentuali, adesso, sono molto più alte. Il bello era che una volta arrivati da quella parte si veniva battezzati cittadini americani con un semplice gesso sulla giacca. A quel punto si poteva sbarcare sulla terraferma».

Sempre a proposito di migrazione

«La storia di noi che siamo stati figli di migranti non mi riguarda affatto, non mi fa cambiare il punto di vista rispetto a ciò che avviene adesso. Quello che mi insegna, invece, la nostra storia, è che le ragioni di coloro che si sono trascinati così lontano, che si sono scaraventati allo sbaraglio nel vasto mondo cercando di trovare un posto per loro, sono sempre state più forti delle ragioni di coloro che li volevano rimandare indietro. È questo che mi insegna la storia delle nostre migrazioni, che sono state più forti della peggiore volontà di respingimento. I titoli dei giornali dell’America di allora nei nostri confronti, se riletti oggi, sono dei titoli che sembrano ridicoli, ci fanno sorridere, e non sono serviti a niente. Nel giro di un paio di generazioni quella volontà di impiantarsi ha prodotto buoni frutti».

Le condizioni dei trasporti delle migrazioni di oggi

«Oggi purtroppo le condizioni di trasporto sono peggiori di prima: un tempo si saliva su un bastimento, si comprava un titolo di viaggio e, anche se si stava nelle stive della terza classe, si aveva un posto letto. Si veniva nutriti e, nel caso, anche curati; alla fine, poi, si sbarcava in un porto. Mai come oggi, invece, si viaggia male rispetto alla storia dei viaggi dell’umanità».

Ci sono degli inviti che non si possono prendere alla leggera

«Sono stato invitato a salire su una nave di Medici Senza Frontiere qualche anno fa; quando qualcuno ti invita a qualcosa di simile non è come se ti invitassero a mangiare una pizza, non puoi dire: “Stasera non ho voglia, desidero rimanere a casa”. A certi inviti bisogna rispondere: “Subito, vengo!”. In quella nave ero uno di bordo, non c’erano cabine per gli ospiti, svolgevo anch’io le mansioni necessarie. In quel periodo ho visto salire da una scala di corda appesa poco più di 800 persone».

Questi viaggi

Neanche gli schiavi hanno viaggiato così male. Loro erano “merce” che aveva un valore solo se veniva consegnata: era merce che rappresentava un guadagno soltanto alla consegna. La “merce umana” di cui si tratta oggi commette il guaio di pagare prima; dunque è una “merce” che per il trasportatore non ha nessun valore, non c’è nessuno stimolo a consegnarla, perché tutto quello che poteva ricavare l’ha già ricavato prima. Ci troviamo di fronte al peggiore sistema di navigazione della storia dell’umanità».

Beati gli ultimi

«È bello pensare che la beatitudine riguardi coloro che arrivano da più lontano: perché hanno più viaggio dentro le gambe, hanno più esperienza e più volontà di raggiungere; ecco perché, a proposito degli ultimi, preferisco dire: “I più lontani”. Che sono quelli che arriveranno più vicino».

La migrazione, esperienza vissuta in prima persona

Nel 1900 ho fatto parte dell’ultima coda della migrazione italiana: sono stato operaio in Francia, a Torino, a Milano. Ero in un palazzo dove c’era scritto: “Non si affitta a napoletani”, una cosa che avrebbe potuto essere un’indicazione precisa per me. Ma io ero ospite, quindi pensavo che quel cartello non ce l’avesse con la mia attività di contribuente. In Francia, nei cantieri, ero l’ultimo italiano; non c’erano nemmeno più i capomastri italiani, che erano diventati proprietari di aziende e, nel frattempo, erano stati sostituiti dai portoghesi che avevano imparato il mestiere da noi. Ma i nostri muratori, non solo napoletani ma di tutto il paese, sono stati e continuano a essere i migliori. Non parlo di me, io ero mezzo rifinito e mezzo no. Così come sono adesso, come scrittore: sono mezzo rifinito e mezzo no».

A proposito di scrittura

«Sono più lettore che scrittore, e m’impiccio delle lingue degli altri: studio, bazzico e frequento diverse lingue; da lettore però, non da conversatore. Leggo più lingue di quante ne scriva. Come lettore sono felice, trovo delle cose che mi fanno sobbalzare di gioia. Ti capita mentre stai leggendo una frase che, a un certo punto, ti illumina. Con la mia scrittura posso sia dirmi soddisfatto sia dire: “Beh, ‘sta pagina meglio di così io non la so scrivere”, e lascio tutto com’è. Lo scrittore Jorge Luis Borges diceva che il testo definitivo riguarda la religione o la stanchezza. Ecco, per me la stanchezza non arriva mai, e la scrittura è un tempo festivo, esattamente al contrario del tempo del lavoro. Il lavoro era qualcosa che si mangiava tutta la mia giornata e mi lasciava delle briciole; ma quelle briciole le prendevo e le valorizzavo attraverso lettura e scrittura. Allora quel piccolo tempo residuo aveva, per me, un valore enorme, perché conteneva anche il sentimento di riscattare tutta quella giornata che se n’era andata – presa e venduta per salario – e le mie forze consumate in questo modo. Così la scrittura era un momento di festa e anche oggi, quando mi metto a scrivere, mi sto concedendo un tempo felice. Non sono l’impiegato della mia scrittura. Quando mi metto a scrivere la pagina è già piena, non rimango col dito sospeso; devo solo mettermi e scriverla, ma è già tutto nel flusso di quello che desidero dire».

Come scrive Erri De Luca

«Io scrivo a mano; su fogli a righe, sennò vado storto. Scrivo la mia pagina e poi, quando l’ho finita – ecco che fareste voi quando l’avete finita? No, non rileggo, sennò diventerei lettore dei miei testi, e non va bene. Allora che faccio? La ricopio, piano piano; intanto quando vai piano ti accorgi se non c’è un ritmo, se una frase non va bene, ti accorgi se ti viene in mente un altro pensiero, una divagazione. Così vedo pure se mi piace, se non mi scoccio. Si tratta di un tempo festivo. E poi ricopio una terza volta, tanto non c’è fretta, non devo consegnare il compito, nessuno mi bussa alla porta e mi dice: “Allora è pronto?’”. Quando ho finito, se mi piace, la consegno all’editore. Certo non scritta a mano, sennò il povero editore non ce la farebbe a interpretare quella calligrafia che mia nonna chiamava “cagata di mosca”».

Gli anticorpi della lettura

«Quelli che leggono molto hanno un vantaggio sleale su quelli che non leggono, una difesa immunitaria del vocabolario. Per cui qualunque versione ufficiale fasulla, qualunque falsificazione delle cose non passano da nessuna parte, vengono respinte. Invece colui che non legge si trova infettato, non ha gli anticorpi per reagire. Dunque, voi che siete evidentemente lettori, non lo fate sapere in giro che avete questo vantaggio! Che rimanga tra noi».

Alla fine dell’incontro Erri De Luca è ancora disponibile per un commento 

 

Erri De Luca

“Impossibile)

(Feltrinelli editore)

sabrina sigon piede pagina
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